In testa: Face Value di Phil Collins

Gli album musicali dal contenuto estremamente "personale" sono qualcosa di particolare, e in un certo senso pericoloso: l'artista si mette a nudo, e i contenuti delle sue canzoni possono risultare troppo poco affascinanti per gli ascoltatori.
Se Double Fantasy di John Lennon e Yoko Ono eccedeva nel decantare le gioie della vita di coppia, Face Value di Phil Collins, batterista dei Genesis, parte dal presupposto inverso: presosi una pausa dal suo tamburellante ruolo all'interno del gruppo, il nostro cominciò a scrivere canzoni come reazione al divorzio dalla prima moglie; molti dei contenuti delle canzoni erano, quindi, legati ai suoi sentimenti personali in quel difficile periodo della sua vita.
Il risultato fu, però, straordinario: l'album si piazzò al primo posto delle classifiche del Regno Unito e in larga parte del resto d'Europa, dando il via alla sfavillante carriera da solista di Phil.
Lo scopo massimo dell'artista, per questo album, era proprio quello di mettere al centro i suoi sentimenti e le sue sensazioni, rispetto alle melodie vere e proprie, dando più spazio ai testi piuttosto che agli strumenti: basti pensare che, nonostante sia un batterista largamente affermato, egli abbia fatto uso di programmi di percussione per le sue canzoni, invece di suonarle di suo pugno.
Persino la confezione è strutturata per dare un senso di intimità, quasi di psicanalisi, allo spettatore: la copertina rappresenta un primissimo piano di Phil Collins stesso, quasi a voler "entrare nella sua testa", e il retro (o a volte la seconda di copertina) rappresenta proprio la sua nuca.
Inoltre, tutti i testi della confezione sono stati scritti a mano, da Collins stesso, e quando nei vari crediti dovrebbe apparire il suo nome c'è invece semplicemente scritto "me".
Un modo affascinante e efficace per far trasparire il lato intimista dell'album sin da prima che l'ascoltatore possa apprezzarne i brani.


Se Double Fantasy era, dunque, intimista in maniera ridondante, Face Value riesce ad esserlo anche oltre ma, al contempo, permette all'ascoltatore di ambientarsi meglio all'interno della mente e del cuore dell'artista.
Il dualismo, peraltro, è in un certo senso particolarmente azzeccato: al di là delle premesse opposte da cui partono i due album, va fatto notare che l'ultimo brano dell'opera prima di Phil Collins è una cover di un brano dei Beatles, e alla conclusione di esso, si può sentire brevemente l'artista intonare "Over The Rainbow", in riferimento alla recentissima scomparsa di John Lennon.
Se la fine del 1980 ci ha privato di un grande solista, dunque, l'inizio del 1981 ce ne dona un altro, in un album che, più per caso che per volontà, dà l'idea di un passaggio di consegne; lungi da me paragonare o collegare i due artisti, ma non si può neppure negare l'importanza che Phil Collins avrà nel panorama musicale nei decenni a seguire.

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